(o
Sannazaro, Iàcopo).
Poeta e umanista italiano. Discendente da una nobile famiglia, secondo quanto
S. stesso narra nell'
Arcadia, a soli otto anni si sarebbe
innamorato di una bambina, che i biografi sono soliti identificare con Carmosina
dei Bonifacio: ciò nonostante, è evidente soprattutto l'ascendenza
letteraria di questa passione giovanile, che si ispira alla
Vita Nova di
Dante. Dopo rigorosi studi compiuti, intorno al 1475, sotto la guida di Giuniano
Maio e di Lucio Crasso, e dopo aver assistito alle lezioni di maestri di
retorica e di poetica, conobbe G. Pontano, il quale lo accolse nell'Accademia
Pontaniana, attribuendogli il nome di
Actius Syncerus. Nel 1481
entrò a far parte della corte aragonese, in quanto Alfonso duca di
Calabria (alle cui imprese belliche
S. aveva partecipato) lo
nominò gentiluomo di corte: qui presto egli si impose come una delle
personalità più note e stimate dell'ambiente culturale napoletano.
Negli anni 1485-86 seguì Alfonso nella guerra contro Innocenzo VIII e
aiutò Pontano, allora ministro, nei successivi negoziati di pace. Legato
da grande amicizia e da profondo affetto al fratello di Alfonso, Federico
d'Aragona,
S. passò alle sue dirette dipendenze nel 1496, quando
costui divenne re di Napoli, ricevendone in dono molti beni, fra cui la villa di
Mergellina, da lui cantata come dimora della poesia. Nel 1501, dopo
l'occupazione francese di Napoli,
S. volontariamente seguì in
esilio in Francia il suo re e tornò a Napoli solo nel 1505, dopo la morte
di Federico: divenuto il principale esponente dell'Accademia, confortato
dall'ammirazione generale e dall'affetto di una gentildonna, Cassandra Marchese,
si stabilì nella villa di Mergellina, dove rimase fino alla morte.
L'esperienza dell'esilio, che costituì il solo grande avvenimento
dell'esistenza cortigiana di
S., segnò in modo netto anche lo
spartiacque fra due diverse fasi della sua produzione letteraria: la prima,
anteriore all'esilio e alla morte di Federico, è caratterizzata
dall'impiego pressoché esclusivo del volgare; la seconda, successiva al
ritorno a Napoli, è contraddistinta dall'uso del latino. Ma la cesura
costituita da questo importante dato biografico influì anche sul mondo
sentimentale del poeta, in quanto dalle opere precedenti l'esilio traspare un
senso di insoddisfazione e di inquietudine esistenziale, proiettato nell'amore
impossibile per Carmosina, mentre nella produzione susseguente prevale una
condizione di pace e di tranquillità interiore, sulla quale influì
senza dubbio la passione, corrisposta, per la Marchese. Delle opere in volgare
di
S., che gli diedero la fama e l'ammirazione dei contemporanei, sono da
ricordare: alcuni giochi scenici intitolati
Farse, una delle quali (
Il
trionfo della Fama) fu rappresentata nel 1492 a Castel Capuano per ordine di
Alfonso d'Aragona;
I gliommeri (cioè gomitoli), bizzarri monologhi
e filastrocche in endecasillabi composti per la recitazione a corte e per il
divertimento dei gentiluomini e dei letterati, i quali si dilettavano in
composizioni di tono popolaresco; le
Rime, scritte in giovane età
ma pubblicate solo dopo la sua morte, costituite da 101 sonetti e canzoni che
per la loro eleganza e cura formale rappresentano uno dei vertici più
alti del Petrarchismo quattrocentesco e anticipano i modi della lirica del
secolo successivo. Opera in volgare è infine l'
Arcadia, il
capolavoro di
S.: si tratta di un libro di prose e di egloghe in versi,
che ebbe immensa fortuna e diede origine a un nuovo genere letterario, il
romanzo pastorale.
L'Arcadia fu composta fra il 1480 e il 1486 e
sottoposta, in seguito, a un paziente lavoro di limatura formale, volto a
eliminare ogni residuo dialettale; agli anni 1491-96 risalgono le ultime parti e
l'epilogo
A la sampogna, in cui l'autore si vanta di esser stato il primo
nel suo secolo a riprendere la tradizione della poesia bucolica. L'esile trama
dell'
Arcadia è da interpretarsi secondo significati diretti e
allegorici. Il racconto maggiore ha per protagonista il pastore Sincero
(
alter ego dello stesso poeta), il quale fugge in Arcadia (regione che
nella tradizione greca classica è legata alla poesia bucolica) per
consolarsi da un amore infelice; qui prende parte alla serena vita dei pastori
arcadi, ascoltandone i canti e assistendo ai giochi e ai riti da costoro
compiuti in onore delle divinità locali. Tuttavia, non trova né la
pace, né la tranquillità interiore, perché la lontananza
della fanciulla desiderata acuisce la nostalgia. Nell'ultima parte, Sincero
narra come, turbato da un lugubre sogno, venisse guidato da una ninfa per vie
sotterranee fino a Napoli, e qui apprendesse la morte della sua amata. A questa
vicenda s'intrecciano storie minori, con vari personaggi del mondo bucolico ed
episodi di magia, d'amore e di caccia, non disgiunti però da allusioni
alla vita culturale e politica napoletana. Si tratta di un'opera di squisita
eleganza formale, densa di reminiscenze e di versioni quasi letterali di poeti
antichi, greci e latini, e di interpreti moderni come A. Poliziano, con il quale
S. - attraverso l'imitazione - entrò in consapevole gara; il mondo
arcadico da lui raffigurato con note di malinconia e di dolcezza è un
mondo che rifiuta ogni spunto patetico e drammatico, è immobile e escluso
dalle forme storiche del tempo. Un rilievo critico merita infine la diversa
funzione delle prose e delle egloghe nello sviluppo della struttura dell'opera:
nella prima sezione il nucleo poetico più vitale è costituito
dalle parti in versi, mentre le prose hanno il solo compito di creare uno sfondo
idillico adeguato; nella seconda sezione, per contro, proprio le parti in prosa
divengono il centro dell'interesse e della narrazione di
S. Pubblicata
per la prima volta a Venezia nel 1501, all'insaputa dell'autore stesso,
l'
Arcadia fu nuovamente edita, con numerose modifiche, nel 1504: in
questa nuova redazione appare più evidente la scelta di G. Boccaccio e di
F. Petrarca quali modelli letterari e linguistici cui
S. si era ispirato
rispettivamente per la prosa e per la poesia in volgare. L'
Arcadia
incontrò immediatamente una fortuna straordinaria, e nel solo Cinquecento
ne furono stampate in Italia ben 66 edizioni; all'estero fu imitata per
più di un secolo, e ad essa si ispirarono lo spagnolo G. de la Vega
(
Egloghe), il portoghese J. De Montemayor (
I sette libri della
Diana), l'inglese Ph. Sidney (
Arcadia), il francese H. d'Urfé
(
Astrea) e il tedesco M. Opitz (
Ninfa Ercinia). Nella seconda fase
della sua vita,
S. abbandonò il volgare a favore della lingua dei
classici e degli umanisti, componendo esclusivamente in latino. Dei suoi scritti
si ricordano gli
Epigrammata in tre libri, di argomento vario, ora
voluttuosi, ora delicati, ora pungenti, ora encomiastici; le
Elegiae,
anch'esse in tre libri, dove traspare l'indole malinconica dell'autore; le
cinque
Ecloghe piscatoriae, vera e propria trovata retorica che accrebbe
ulteriormente la sua fama. Infatti, i contemporanei reputarono geniale l'idea di
trasporre l'ambientazione bucolica e pastorale delle egloghe al mondo e ai
costumi dei pescatori, innovando così il modello classico senza
stravolgerlo. Più importante e laboriosa fu infine la stesura del poema
in esametri di argomento religioso
De partu Virginis: iniziato
presumibilmente intorno al 1506, fu pubblicato in tre libri, dopo un ventennio
di elaborazione, nel 1526. In quest'opera, che contempla il mistero della
nascita divina,
S. assurge a un tono lirico venato da misticismo, ma
costantemente rivolto ai modelli dell'antichità classica. Postumi furono
stampati nel 1530 a Roma gli scritti in volgare; nel 1535 Aldo Manuzio raccolse
in volume a Venezia tutte le opere latine (Napoli 1456 circa - 1530).